
Qualsiasi azione israeliana, da 80 anni a questa parte, va collocata
in un contesto storico preciso: quello della colonizzazione della Palestina,
che ha come obiettivo ultimo la sostituzione etnica del popolo palestinese con
il popolo ebraico. Decenni di uccisioni, sottrazioni di case e terreni,
demolizioni, pogrom e arresti arbitrari che hanno trovato nel 7 Ottobre uno
scudo dietro il quale passare da una pulizia etnica intensa ma lenta ad uno
sterminio rapido e implacabile. Oggi, dopo oltre un anno di furia omicida, Gaza
è una terra straziata, dove non rimane nulla che possa sostenere la vita. Sono
circa 186.000 (tra cui decine di migliaia di bambini) i decessi, diretti ed
indiretti, attribuibili all’azione dell’entità sionista nella Striscia di Gaza.
Milioni gli sfollati, centinaia di migliaia i feriti. Le strutture sanitarie
annientate. Tutto questo non può che essere definito genocidio. Israele ne è
responsabile perché si è macchiato di tre degli atti che costituiscono
genocidio come descritti nella Convenzione delle Nazioni Unite del 1948:
uccisione di membri di un gruppo, lesioni gravi all’integrità fisica o mentale
di membri del gruppo, sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita
volte a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale. La chiave è
l’intenzionalità e l’intento, ce l’hanno detto gli israeliani stessi, è il
progetto della “Grande Israele”. Ovvero la creazione di uno Stato dove, come
dice una legge nazionale del 2018, nella “terra di Israele che va dal fiume al
mare”, hanno il diritto di esistere, come popolo, soltanto gli ebrei
israeliani. Si tratta probabilmente dell’ultimo feroce atto della
colonizzazione della terra di Palestina, nonostante il negazionismo della
classe dirigente e dei mass media occidentali, e di una parte dell’opinione
pubblica. La negazione fa parte di tutti i processi genocidi e degli atti di
violenza di massa. La negazione del genocidio del popolo palestinese e
l’impulso di non vedere cosa sta succedendo a Gaza, presentano, però, una
peculiarità: sono strettamente legate al
“paradigma vittimista” come elemento identitario di Israele, che fin dalla
fondazione si è posto come erede degli ebrei uccisi nella Shoah e si è assunto
il ruolo di mantenerne la memoria. Per questo anche i membri non sionisti
delle comunità ebraiche occidentali, faticano ad utilizzare il termine
genocidio; sono paralizzati da un corto circuito logico e morale e dalla
difficoltà nel mettere in discussione una memoria condivisa che si è rivelata
essere volta non tanto all’elaborazione del trauma della shoah, bensì
all’assunzione identitaria dello stato di vittima sacrificale che definisce il
‘noi’ (bianchi, occidentali, civili) in contrapposizione con il “loro” (arabi,
incivili, barbari). Ma qualunque siano le difficoltà nel definire o riconoscere
a fondo quanto sta accadendo in Palestina, negare o rimuovere gli orrori che
porta con sé la devastazione coloniale sionista, rende complici di fronte alla
storia. L’occidente ha convenientemente rimosso dalla memoria collettiva 500
anni di colonialismo. Ed è per questo che Gaza oggi è la cartina tornasole
della giustizia internazionale globale manipolata dall’occidente. Se la
violenza genocida di Israele non verrà fermata, il futuro del popolo
palestinese sarà simile a quello di altri popoli indigeni dove il colonialismo ha
praticamente cancellato interi gruppi umani.

Commenti
Posta un commento