LA VOLPE E L'UVA
La
PACE come nuova materia di studio. Il Ministro della Pubblica Istruzione Valditara
la rende obbligatoria per tutte le scuole di ogni ordine e grado!!!
Abbiamo
rivolto ad Elena Monicelli – coordinatrice della Scuola – alcune domande.
Ecco
come ci ha risposto.
Le domande a cui non sappiamo rispondere
desiderò afferrarli ma
non ne fu in grado.
Allontanandosi però
disse fra sé: «Sono acerbi».
Così anche alcuni tra
gli uomini,
che per incapacità non
riescono a superare le difficoltà,
accusano le
circostanze.»
Esopo
Gli
eccidi di Monte Sole
L’area
di Monte Sole è un territorio collinare situato tra le valli del fiume Reno e
del torrente Setta, nella parte meridionale della provincia di Bologna. Durante
la Seconda Guerra Mondiale, era abitata da circa 2.000 persone. L’ultima linea
del fronte, la Linea Gotica passava poco lontano e rappresentava la
retroguardia difensiva del confine meridionale del Terzo Reich nazista.
Dall’ottobre
1943 era attiva nell’area una brigata partigiana chiamata Stella Rossa,
composta principalmente da elementi locali di diversa matrice politica e
culturale. La brigata agiva con operazioni di sabotaggio finalizzate a
disturbare sia la presenza che la ritirata nazista.
Nell’estate
del 1944 si stanziò nell’area la 16a divisione corazzata granatieri
Reichsführer delle SS comandata da Max Simon. Fu questa divisione che decise,
pianificò e attuò un’operazione militare per il rastrellamento del “territorio
nemico” e per debellare la presenza partigiana, le cui attività venivano
definite «attività di bande e banditi».
Nelle
prime ore del 29 settembre 1944, 4 compagnie appartenenti al battaglione
esplorante della divisione (Aufklaerungs abteilung), sotto il comando del Maggiore
(SS-Sturmbannführer) Walter Reder, partirono dalla valle del Setta alla volta
delle colline di Monte Sole dove si sospettava fossero i partigiani. Altre
unità erano dislocate nella valle del Reno per accerchiare tutta la zona.
L’operazione si svolse in ottemperanza alle teorie dell’esercito tedesco sulle
operazioni di antinsurrezione che furono sviluppate e messe a punto sul fronte
europeo orientale. La manovra nazista centrò l'obiettivo: entro poche ore la
brigata fu annientata e i partigiani resi inoffensivi, costringendo i più alla
fuga durante la notte. L’operazione si è ripetuta secondo le stesse modalità
fino al 5 ottobre. Le vittime furono praticamente tutte civili: solo 7 soldati
nazisti furono uccisi e circa 20 partigiani uccisi, feriti o fatti prigionieri.
I nazisti bruciarono le case e uccisero gli animali.
Il
bilancio dei sette giorni di massacro ha raggiunto la cifra di 770 vittime, tra
cui 216 bambini, 142 anziani e 316 donne. L’operazione è stata pianificata a
tavolino e non è stata pensata come reazione a particolari azioni della
resistenza partigiana, la quale, da un punto di vista militare, era alquanto
debole. Gli eccidi di Monte Sole non possono essere annoverati quindi sotto la
categoria della rappresaglia, ma sono un’operazione di bonifica finalizzata al
massacro.
L’operazione
fu un successo dal punto di vista nazista: l’area, i suoi abitanti, e con loro
ogni possibilità di resistenza, erano stati annientati.
Come
è stato possibile?
Quante
volte volgendo lo sguardo alle tragedie immani della Seconda guerra mondiale ci
siamo post* questa domanda?
Quante
volte questa domanda è stata sincera?
L’impressione
è che il più delle volte l’interrogativo venga formulato con un’inclinazione
retorica, quasi non necessitasse di indagine. Erano mostri, erano sadici,
erano drogati, erano bestie, non erano umani.
Ma
questa postura giudicante è segno solo del fatto che in realtà non sappiamo
rispondere.
O
meglio, non vogliamo rispondere perché se rispondessimo scopriremo che «ciò che
il male sa di sé lo troviamo facilmente anche in noi» (Agamben G., Quel che
resta di Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri. 1998).
Dovremmo
cioè riconoscere tutti quei dispositivi e meccanismi che, rintracciabili alle
origini e al cuore della violenza nazista e fascista, fanno parte del nostro
quotidiano stare insieme: la propaganda e la pubblicità; l’educazione; i mezzi
di comunicazione di massa; l’imposizione rigida di modelli e identità; la
costruzione e la reiterazione, consapevole e non, di stereotipi, pregiudizi e
stigmi; l’esclusione, il razzismo e la discriminazione; l’obbedienza
all’autorità; la ricerca del prestigio sociale; il conformismo e l’adeguamento
alla pressione del gruppo; la categorizzazione e la disumanizzazione dell’altro
attraverso il linguaggio verbale e delle immagini; la socializzazione del
rancore; la costruzione del capro espiatorio e di identità oppositive noi/loro.
Se
fossimo più sincer* con noi stess* dovremmo ammettere che non solo è stato
possibile ma è continuamente possibile perché – forse, nella maggior parte dei
casi e delle situazioni – non siamo abbastanza robust* da costringerci a
vigilare su noi stess* e sul contesto che ci circonda.
Primo
Levi ammoniva se stesso e noi affermando che “quanto più è dura e convincente
l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a
collaborare col potere. Questa disponibilità è variegata da infinite sfumature
e motivazioni: terrore, adescamento ideologico, conformismo, bisogno di
identificazione, ambizione, viltà, imitazione pedissequa del vincitore, voglia
di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto nello spazio e nel
tempo”.
La
Scuola di Pace, da quando esiste (2002), crede che abitare un luogo della
violenza passata significhi confrontarsi con l’esperienza della guerra
quotidianamente, non solo nell’emergenza delle prime pagine dei giornali.
Significa confrontarsi quotidianamente con tutto quello che alimenta la cultura
dell’oppressione, della sopraffazione, dell’uccisione.
Per
questo, non c’è giorno in cui la nostra attenzione non venga richiamata dalle
decine di conflitti e guerre che devastano il mondo, dalle migliaia di violenze
puntuali o sistemiche che avvengono in ogni angolo del globo. Sono proprio le
violazioni inaudite e sistematiche avvenute a Monte Sole che ci impongono la
prospettiva dei diritti umani e dell’inviolabilità della vita di ciascuno/a
come prospettiva di senso e come cornice di riferimento in contrapposizione al
costrutto binario del torto e della ragione. Conseguentemente, abbiamo sempre
rifiutato la logica secondo cui il rifiuto della violenza implica il
fiancheggiare l’aggressore, affermando che il rifiuto della violenza non
giustifica l’arroganza, la prevaricazione, la vessazione ma chiama alla fatica
di un lavoro di riconoscimento reciproco, di complessità, di confronto.
Come
quando interrogat* alla cattedra non sapevamo la risposta, anche in questo caso
succede spesso di girarci intorno.
Con
una certa dose di sarcasmo verrebbe da dire che la pace è quella cosa che tutt*
dicono di volere, che molt* intendono in modo diverso, che in molt* ritengono
irrealizzabile.
Nel
tentativo di coerenza rispetto a quanto rispetto a quanto detto in precedenza,
per la Scuola di Pace la definizione non può limitarsi alla sola assenza di
conflitto, più o meno aperto, più o meno dichiarato. La pace è una questione
culturale e contestuale, in cui la nonviolenza è una postura da tenersi sia nei
confronti degli esseri umani che dell’ambiente in cui viviamo, perseguendo la giustizia
sociale, la promozione e il rispetto dei diritti umani. Ovvero la pace non può
essere semplice assenza di guerra (anche se ovviamente sarebbe un buon punto di
partenza), ma la pace deve essere un progetto di vita, di costruzione attiva di
un contesto sociale libero da discriminazione, ingiustizia, repressione,
violenza.
Detto
da una Scuola di Pace può sembrare un paradosso, ma non siamo cert* che la pace
si possa insegnare. In questo ambito forse più che in altri, infatti, è
impossibile risultare efficaci se si predica bene e si razzola male… Spesso il
sottinteso è “fai quel che dico, non fare quel che faccio”, ma con la pace
questo non funziona, non foss’altro per il fatto che - per esempio - la pace
prevede la parità tra le parti mentre quel sottinteso riflette la possibilità
per una delle parti di “violare” l’altra.
Quello
che è certo per noi, quindi, è che la pace si può imparare. È necessario
infatti ribaltare il senso comune che vede il termine scuola associato
ad un ambiente gerarchico, dove chi sa ha più potere e trasmette a chi non sa.
Per noi scuola significa avere il tempo e lo spazio per co-educarsi, per
scambiarsi cioè saperi e competenze, per condividere pensieri ed emozioni al
fine di immaginare prima e realizzare poi la società che vogliamo.
Per
noi, la pace non è l’uva di Esopo e noi non possiamo essere le volpi che
abbandonano il campo perché l’obiettivo sembra troppo lontano, velleitario,
impraticabile. Per noi la pace è un utopia, in cui la parte rilevante non è
certo l’irrealizzabilità ma l’essere aspirazione, sprone alla responsabilità e
all’azione, forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di
orientare forme di rinnovamento sociale.
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