
Israele ha una superficie e una
popolazione quasi perfettamente sovrapponibili a quelle della Lombardia e anche
un PIL paragonabile. Immaginiamoci per
un attimo le conseguenze, economiche, politiche e militari, per un ipotetico
stato lombardo, se questo, come fa Israele da decenni, infrangesse centinaia di
risoluzioni delle nazioni unite, violasse sistematicamente i diritti umani,
derubasse, recludesse, affamasse, torturasse, sgomberasse e sterminasse la
popolazione di una delle regioni confinanti. Probabilmente il suo governo
verrebbe deposto militarmente e i caschi blu verrebbero schierati ai confini
per assistere le popolazioni civili e far rispettare le risoluzioni
internazionali. Ma Israele non è la Lombardia e infatti continua a fare ciò che
vuole, anche un genocidio in mondo-visione, nel silenzio e la connivenza dei
governi di mezzo mondo. Di fronte a questa impunità così sfacciata è
inevitabile chiedersi come sia possibile che un fazzoletto di terra semi
desertico abbia tutto questo potere e riesca a tenere sotto scacco alcuni dei
paesi più potenti del mondo. Una delle spiegazioni che viene data è che quello
Stato rappresenta una sorta di compensazione per la shoah e che, per questo,
alcuni paesi sarebbero particolarmente accondiscendenti. Ma questo tema offre
solo una visione parziale del problema. In realtà non è poi così difficile
intravedere, sotto il velo del conflitto etnico-religioso fra due popoli e
sotto quello del suprematismo colonialista di cui si è nutrito Israele fin
dalla sua nascita, elementi di carattere economico che muovono le dinamiche in
quell’area. Francesca Albanese, nel suo report per le Nazioni Unite, analizza
l’aspetto economico nell’evoluzione dell’occupazione israeliana in Palestina,
evidenziando come le big tech e numerose aziende europee e statunitensi nel
settore della logistica e dei servizi rappresentano degli elementi chiave a
supporto di Israele. Il rapporto evidenzia anche come l’interconnessione tra
multinazionali ed imprese israeliane (su tutte Elbit Systems, Lockheed Martin,
Google, Amazon e Microsoft) si sia consolidata, creando infrastrutture
tecnologiche e militari che supportano non solo l’occupazione, ma che forniscono
anche strumenti, tecnologie e supporto logistico ai militari israeliani contro
la popolazione civile.
Ad esempio, programmi di supporto cloud come il Progetto Nimbus,
joint venture tra Amazon e Google per fornire servizi di intelligenza
artificiale e architetture cloud all’apparato di sicurezza israeliano, sono
emblematici del ruolo attivo della tecnologia nell’amplificazione della
capacità militare dello stato sionista. A ciò si aggiunge un’interdipendenza
economica crescente: Israele rappresenta oggi uno snodo fondamentale per
l’innovazione digitale e la sicurezza cibernetica globale. A tutti gli effetti
è diventato un hub che attira da oltre vent’anni investimenti dalle principali
imprese occidentali. La dimensione etico-giuridica del conflitto israelo-palestinese,
alla luce di questi fattori, viene frequentemente subordinata alla realpolitik
occidentale, che privilegia l’espansione delle proprie economie fregandosene del
rispetto dei di diritti umani. Inoltre le classi dirigenti occidentali hanno individuato
nella crescente tensione e instabilità in medio oriente, acuita e ricercata con
l’occupazione di Gaza e i bombardamenti dei paesi circostanti, un’opportunità
per accrescere i profitti delle imprese energetiche multinazionali, delle
società finanziarie, dei grandi fondi speculativi e dei produttori di
armamenti. Non a caso i titoli delle società che producono armi, a cominciare
da Lockheed Martin per finire con Leonardo, registrano continui aumenti nel
prezzo dei loro titoli, con picchi ad ogni recrudescenza delle azioni militari
dell’entità sionista. Gli speculatori scommettono infatti sull’aumento della
domanda di missili, artiglieria e altre tecnologie militari che i venti di
guerra dovrebbero alimentare, trasformando le aspettative del prossimo futuro
in immediate plusvalenze finanziarie. L’aumento della domanda che viene (e
continua a venire) dall’Ucraina, ora da Israele e domani da chissà quale tra
gli altri conflitti ancora in atto nel mondo, sta dando ai produttori di armi e
ai fornitori di tecnologie di cybersecurity la certezza di poter contare su
ordini sostenuti per aumentare la produzione. L’industria militare e della
difesa, che agisce da tempo in piena sinergia con i cosiddetti giganti
digitali, si avvia a diventare uno dei pochi settori delle economie capitaliste
che potrebbe generare nuovi posti di lavoro e non essere afflitto da eccessi di
capacità produttiva, come avviene invece da anni per tutte le altre principali
industrie. Tale prospettiva è stata talmente introiettata dal corpo sociale dei
paesi occidentali che ne abbiamo avuto testimonianza anche a Siena con il caso
del possibile approdo di Leonardo nel sito industriale ex Beko. Di fronte all’ipotesi di produrre strumenti
di morte, i sindacati confederali, molti operai e tanti cittadini, hanno
guardato con favore alla possibilità di dare il proprio contributo al riarmo, purché questo porti soldi e lavoro. In conclusione, l’ennesimo e più
sanguinoso capitolo di una storia di crimini e soprusi perpetrata da uno Stato
coloniale che ha goduto di impunità mai viste grazie allo status di principale
partner mediorientale dell’asse euro-atlantico, si è palesato anche come una
straordinaria opportunità di profitto per i grandi gruppi economico-finanziari
che dominano un’economia mondiale in forte rallentamento e che plasmano in modo
coerente le decisioni degli Stati. Sebbene questi ultimi possano apparire come
i soggetti attivi nella composizione degli equilibri geopolitici, le loro
strategie politiche, economiche e militari, in realtà, non sono mai
indipendenti dalla necessità di incrementare i profitti delle grandi aziende
che ne condizionano e orientano gli indirizzi, quasi sempre a scapito dei
bisogni e delle spirazioni di pace e convivenza civile della maggioranza degli
individui.
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