LA LENTE COLONIALE CHE DEFORMA GAZA
La lente coloniale che deforma Gaza
Articolo di IAIN CHAMBERS uscito sul Manifesto
Nonostante i buffoni di corte, gli opinionisti e l’ufficio stampa
della Rai propongano dichiarazioni grottesche per negarlo, la descrizione della
situazione a Gaza come genocidio, confermata da istituzioni e voci assai più
autorevoli, circola ormai da mesi nella sfera pubblica. Nel registrare questo
fallimento politico e intellettuale della classe dirigente italiana (e, più in
generale, europea e occidentale), sarebbe ora di fare un ulteriore passo in
avanti e spostare la questione su un altro piano, al fine di contestare la
brutale occupazione del nostro linguaggio e il suo utilizzo per giustificare i
crimini contro l’umanità perpetrati da Israele e dall’Occidente.
Insistere sulla parola chiave «colonialismo» ci permette di aprire la situazione atroce nel Mediterraneo orientale a una nuova narrazione e a una serie di considerazioni storiche e critiche che ci portano ben oltre la banalità del male che sostiene le spiegazioni attualmente in voga. Semplicemente, il fatto che il concetto di colonialismo non sia permesso negli studi televisivi, nei dibattiti parlamentari, sulla stampa, e spesso nei senati accademici, ci allerta su qualcosa di disturbante dal punto di vista lessicale e politico. Ricordare la costituzione coloniale del presente, del nostro presente, che emerge in maniera inequivocabile dalle macerie di Gaza, ci spinge a interrogarci sull’assetto delle attuali relazioni politiche, culturali ed economiche che inquadrano il mondo rispecchiando una prospettiva unica.
È comodo pensare che il colonialismo, come
un capitolo storico, sia stato superato e relegato ai margini della storia
europea, finendo nel dimenticatoio del passato. Ma forse il tempo storico non è
semplicemente lineare. Qualsiasi analisi del passato è sempre un atto
contemporaneo, sostenuto e sospeso da linguaggi attuali che permettono alla
storia di apparire tra noi. In
questa maniera, il passato continua a interrogarci, ponendo domande contro ogni
tentativo di addomesticarlo a fini puramente politici e strumentali. Ridurre la
storia esclusivamente al nostro modo a vedersi comporta la negazione dei
diritti degli altri. Così, la narrazione dei vincitori occidentali passa come
l’unica e perciò universale. Questo schema rappresenta un vero fallimento
storiografico, filosofico e politico.
Dinanzi
all’arroganza dell’Occidente, che difende azioni indifendibili dello Stato
d’Israele non solo dal 2023 ma da decenni, ci troviamo di fronte al continuum
coloniale. In altre parole, il colonialismo non è un evento storico concluso,
ma un processo aperto che continua ad appropriarsi delle ricchezze e delle
risorse del pianeta, perseguendo l’imperativo del capitale e creando una
gerarchia razziale del mondo per giustificarlo. Ormai senza pudore, alla luce
del sole, il nesso intrinseco tra colonialismo, capitalismo e razzismo, per cui
alcune vite contano più delle altre e la difesa della supremazia bianca è
sempre più esplicita, si manifesta in tutta la sua brutalità. In questo
scenario atroce, la Palestina si presenta come il laboratorio insanguinato
della modernità. Proposta e spiegata come una «questione» intrinsecamente
violenta e irrisolvibile, Gaza e la Cisgiordania tradiscono la continuità
coloniale che ha sostenuto il nostro «progresso» da cinque secoli. Nel
frattempo, le aziende edili italiane, inglesi… si stanno preparando per la
ricostruzione di Gaza.
Introducendo
nel dibattito pubblico il concetto di colonialismo come chiave per liberare il
presente dalla brutalità della narrazione dominante, ci permette anche di
uscire dalla claustrofobia del momento, che ci sommerge nei dettagli dei
complotti di potere, senza arrivare alle profonde strutture che regolano la
formazione del mondo contemporaneo. Nella percezione dello spazio-tempo della
modernità, in cui i parametri consueti confermano solo la nostra sovranità,
dobbiamo renderci conto che le pretese globali del capitalismo e lo sterminio
delle popolazioni indigene e «inferiori» sono stati il dispositivo centrale per
stabilire, economicamente, politicamente e filosoficamente, la modernità
occidentale come misura del mondo.
Ormai è
chiaro che tale ordine, come Frantz Fanon sosteneva molti decenni fa, deve
essere smontato e le sue pretese universalistiche abbandonate. Così i suoi
frammenti vengono liberati per essere configurati in prospettive più aperte e democratiche.
Se chiaramente non esiste più una realtà esterna alla modernità, dobbiamo
scavare più a fondo nelle nostre rovine, ascoltare le storie che resistono e si
rifiutano di passare, per smontare, deviare e declinare i linguaggi che cercano
di catturarci – dalla politica alla poetica – per trovare percorsi e
prospettive inaspettate, dirompenti e non autorizzate. Per quanto riguarda
l’autorità politica e culturale che sostiene la colonialità del presente,
sarebbe opportuno ricordare la dichiarazione fatta nel 1957 dall’intellettuale
ebreo-tunisino Albert Memmi, secondo cui ogni forma di colonialismo è una forma
di fascismo.

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